L’autunno si prospetta particolarmente caldo per la finanza pubblica italiana: la scarsità di risorse economiche condizionerà scelte che incideranno sul clima politico interno, sui rapporti con le autorità europee e sulle attese dei mercati finanziari. Inoltre, è solo dal 2013 che l’Italia ha attenuato gli sforzi di miglioramento dei saldi di finanza pubblica. La politica di bilancio ha abbandonato l’intonazione restrittiva dopo la discesa del deficit al di sotto della soglia del 3% del Pil, e all’uscita del nostro Paese dalla procedura per deficit eccessivi, e soprattutto grazie al rientro delle tensioni sui rendimenti dei nostri titoli di Stato.
Dopo il 2013 il deficit italiano è sceso poco, passando dal 3% al 2% del Pil circa; la flessione è stata legata essenzialmente alla riduzione della spesa per interessi. Allo scopo di non pesare troppo sui cittadini, già gravati dalle conseguenze della lunga fase di crisi dell’economia, la politica di bilancio italiana ha cercato negli ultimi anni di rallentare il percorso di aggiustamento verso l’obiettivo del pareggio di bilancio. In particolare la strategia adottata è stata basata su una costante “contrattazione” con le autorità europee; tale strategia ha permesso di evitare misure di segno restrittivo, che avrebbero potuto vanificare la già debole ripresa dell’economia.
D’altra parte, il rinvio dell’obiettivo del pareggio non è bastato per ottenere grandi risorse, adeguate per finanziare i programmi di spesa che sarebbero necessari per fornire risposte alle necessità del Paese,sia allo scopo di sostenere la crescita della domanda, sia con l’obiettivo di andare incontro a esigenze di carattere sociale. Non a caso il nuovo Governo ha subito esplicitato un programma molto ambizioso, che punta a mettere in campo diverse azioni rispetto alle quali sarebbero necessarie risorse finanziarie significative: reddito di cittadinanza, abolizione della Legge Fornero, flat tax sui redditi, abolizione degli aumenti attesi dell’Iva.
Al momento non sono chiari i dettagli e, soprattutto, le tempistiche del programma di Governo. Difatti, ciascuna misura può richiedere impegni economici differenziati a seconda di come essa venga implementata. Già il primo intervento più urgente, quello relativo al superamento della “clausola di salvaguardia” sull’Iva comporta un impegno di ben 12,5 miliardi di euro il primo anno, che salgono a 19 nel 2020. Tale gettito sarebbe ottenuto aumentando l’aliquota dell’Iva ordinaria dal 22% al 24,2% nel 2019 e aggiungendovi poi un ulteriore gradino, sino al 24,9% nel 2020; a ciò si aggiungerebbe l’incremento dell’aliquota ridotta dal 10% all’11,5% l’anno prossimo e al 13% nel 2020.
Le clausole di salvaguardia da un punto di vista tecnico consistono in un provvedimento già varato che il Governo si ripromette di modificare trovando risorse attraverso misure alternative, vale a dire aumenti di gettito o riduzioni di spese tali da garantire lo stesso impatto sui conti pubblici. Tali clausole sono poste di fatto a garanzia del rispetto dei target nei confronti delle autorità europee. Negli anni scorsi si è poi cercato di disattivare l’applicazione di tali misure; difatti, aumenti significativi delle aliquote Iva avrebbero l’effetto di fare aumentare i prezzi, ridurre il potere d’acquisto dei consumatori e rallentare ulteriormente la già non eccezionale crescita dei consumi delle famiglie.
In un triennio l’adozione piena degli aumenti dell’Iva indicati nella clausola comporterebbe difatti quasi due punti di maggiore inflazione, una minore crescita dei consumi di oltre un punto percentuale e un effetto sul Pil di mezzo punto percentuale. Si spiega quindi il tentativo di evitare l’aumento delle aliquote Iva. D’altra parte, un aspetto rilevante è rappresentato dal fatto che misure sostitutive finalizzate a conseguire i medesimi obiettivi di bilancio possono anch’esse produrre effetti negativi sulla crescita. L’obiettivo è quindi soprattutto quello di ricorrere alla ricontrattazione con le autorità europee degli obiettivi sui saldi, ritardando quindi i tempi della discesa verso il pareggio.
Le altre misure, come ricordato, sono di quantificazione più incerta. Al momento, la più impegnativa è la flat tax. Per flat tax si intende un provvedimento che tende ad appiattire le aliquote di imposta; nella versione “pura” si tratta di introdurre una aliquota unica. Nel programma di Governo si ipotizza l’introduzione di due aliquote, una al 15% e l’altra al 22%. La misura è oggetto di dibattito, sia per le necessità di copertura, in quanto essa comporta una riduzione dell’aliquota media dell’Irpef, che per gli effetti sulla crescita. Le esigenze di copertura sarebbero difatti rilevanti: stime di Baldini e Rizzo (lavoce.info del 15/5/2018) indicano un mancato gettito di quasi 50 miliardi; si tratta di stime di tipo “statico” in quanto applicano le nuove aliquote senza tenere conto degli effetti della misura sulla rispettiva base imponibile.
Difatti, secondo i promotori del provvedimento una misura di questo tipo ha effetti rilevanti sulla crescita dell’economia, tanto da determinare un aumento di gettito in grado di quasi autofinanziare la riduzione delle aliquote. Tuttavia, anche l’esperienza americana dei primi anni 80 insegna che misure di questo tipo non si autofinanziano, tanto meno in un Paese come l’Italia dove elevata è la propensione ad evadere.
Vi è poi la promessa di abolire la Legge Fornero. Anche in questo caso, non è ancora chiaro quali possano essere le caratteristiche delle nuove regole. È difatti evidente come l’onere per le finanze pubbliche sia molto diverso a seconda dei nuovi criteri che verrebbero introdotti e quindi dell’ampiezza della platea di soggetti che beneficerebbero dell’anticipo dell’età di pensionamento. Secondo le elaborazioni di Cazzola, l’ipotesi cosiddetta di “Quota 100” (ovvero il requisito per il pensionamento sarebbe dato dalla somma dell’età anagrafica e contributiva, che deve superare il valore di 100) avrebbe un costo annuo pari a circa 11 miliardi.
Il tema della spesa pensionistica appare peraltro destinato a ritornare nell’agenda dei Governi nei prossimi anni. Un aspetto importante è che gli scenari dei documenti ufficiali proiettano una relativa stabilità della spesa pensionistica italiana in rapporto al Pil nei prossimi decenni, proprio per effetto delle misure di contenimento della spesa varate con la legge Fornero. Negli ultimi mesi da parte di diverse istituzioni (ad esempio il Fondo monetario internazionale) sono state avanzate critiche alle ipotesi alla base degli scenari ufficiali italiani, in quanto ritenute troppo ottimiste. La critica riguarda soprattutto l’andamento dei flussi migratori: le tendenze degli ultimi anni hanno invece mostrato (a dispetto del dibattito pubblico) un deciso rallentamento dei flussi netti. La revisione al ribasso della dinamica demografica influenza anche le previsioni di crescita del Pil. In questi scenari, l’andamento futuro della spesa pensionistica italiana risulta crescere di alcuni punti di Pil nei prossimi venti anni. Si tratta di una dinamica della spesa che apre molte incertezze riguardo ai livelli delle prestazioni pensionistiche che verranno erogate alle prossime generazioni.
Un ulteriore punto centrale del programma di Governo è l’introduzione del reddito di cittadinanza. Alla base di questa proposta vi sono i limiti del nostro sistema di welfare, ritenuto nel complesso inadeguato per ridurre in misura significativa i rischi di discesa al di sotto della soglia di povertà assoluta. La consapevolezza di questi limiti nel sistema italiano, aveva già ispirato l’azione del precedente Governo, con l’introduzione da quest’anno del Reddito d’Inclusione (Rei).
Su questo filone si inserisce quindi la proposta del Movimento 5stelle, che parla da tempo di un “reddito di cittadinanza”. Nella versione “pura” il reddito di cittadinanza è erogato senza porre condizioni, vale cioè per tutti i cittadini. Di fatto però vi sono rarissimi esempi di applicazione del reddito cittadinanza secondo questo genere di modalità (un esempio è costituito dall’Alaska). Anche nella proprosta del Movimento 5stelle è stata adottata una versione attenuata, individuando la platea dei possibili beneficiari sulla base delle condizioni di reddito familiari e della disponibilità dei beneficiari ad accettare proposte di lavoro.
Naturalmente il problema è quello della capacità del soggetto pubblico individuato di assecondare realmente l’inserimento professionale dei beneficiari del sostegno al reddito. Nella proposta del Movimento 5Stelle questo compito spetterebbe ai Centri per l’impiego (Cpi), che attualmente non dispongono delle strutture e delle risorse umane per attuare realmente una funzione di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Di fatto, se si intendesse attribuire ai Cpi questa funzione occorrerebbe ricostituirli ex-novo. A questo va poi aggiunto il fatto che i beneficiari di questo genere di misure sono concentrati prevalentemente al Sud, dove comunque è difficile trovare offerte di lavoro per tutti coloro che potrebbero beneficiare del reddito di cittadinanza, a prescindere dalle capacità dell’intermediario.
Al pari del Rei, la proposta di reddito di cittadinanza del Movimento 5stelle si rivolge solo a chi si trova in condizioni di povertà. Nel caso del reddito di cittadinanza i criteri sono però meno stringenti rispetto al Rei, e l’entità dell’assegno erogato più corposa. Per definire i requisiti si fa riferimento al reddito annuo netto, che deve essere inferiore a una soglia pari a 9.360 euro, corrispondente a 780 euro mensili per un single, e che aumenta al variare della composizione familiare. La soglia è stabilita sulla base dell’indicatore di povertà monetaria nel 2014, quindi in riferimento al 60% del reddito mediano equivalente. L’importo dovrebbe essere pari alla differenza tra la soglia (di 780 euro mensili per i single) e il reddito monetario. Vi sono stime molto diverse circa i possibili costi del reddito di cittadinanza. L’Istat li ha stimati in 14,9 miliardi (nella valutazione del disegno di legge presentato nella scorsa legislatura). Con metodologie diverse, Baldini e Daveri stimano la spesa annuale del reddito di cittadinanza in 28,7 miliardi di euro, una quantificazione con ordini di grandezza già più vicini a quella dell’Inps, pari a 35 miliardi. Le differenze tra le stime dipendono anche dall’inclusione o meno dei costi legati al potenziamento dei Centri per l’impiego.
In sostanza, le misure elencate comportano un onere per le finanze pubbliche pari a oltre 100 miliardi, misura che poi viene superata abbondantemente se si cumulano i diversi interventi “minori” del contratto di Governo. Naturalmente, a partire da un programma così ampio, nella fase iniziale verranno adottate solo misure parziali. Conta molto nella definizione del programma tanto il grado di coordinamento con le autorità europee quanto la valutazione che prevarrà sui mercati finanziari.
Se è vero difatti che queste misure possono avere effetti posizioni sull’andamento della domanda interna e quindi favorire un aumento della crescita dell’economia, d’altra parte è importante che da esse non consegua un peggioramento della valutazione della rischiosità del nostro debito pubblico, tale da portare a aumenti rilevanti nei tassi d’interesse sui titoli di Stato, che poi si tradurrebbero in maggiori tassi sui prestiti delle banche alla clientela e quindi, in definitiva, in un rallentamento della domanda interna.
L’effetto sulla crescita dello stimolo fiscale verrebbe in tal modo attenuato. Anche il coordinamento con gli obiettivi europei indurrà a un approccio selettivo nella fase iniziale: l’ultimo DEF di aprile indicava un saldo in pareggio nel 2020, un risultato certamente ambizioso, conseguibile con politiche di austerità che si è però già dichiarato di non volere seguire. D’altra parte, l’Italia non è il solo Paese ancora indietro nella fase di aggiustamento del proprio saldo di bilancio: Francia, Spagna e Portogallo presentano disavanzi anche più elevati di quello italiano. Gli spazi per diluire la fase di correzione dei conti, come già avvenuto negli anni scorsi, sono dunque concreti. Il punto è quello di concordare con le autorità europee un percorso di rientro credibile, alla luce del fatto che rispetto agli altri Paesi, l’Italia ha uno stock di debito più elevato, e che per questo motivo risulta essere il Paese più vulnerabile rispetto all’eventuale riemergere delle tensioni
sui mercati.
Questo articolo è un estratto dell’anteprima digitale del Rapporto Coop 2018
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