Materiali per la stampa
Clicca sul pulsante per scaricare i Materiali per la stampa del Rapporto Coop 2009 (settembre 2009)
Il rientro dalla pausa estiva è per tradizione il momento dei primi bilanci per l’anno che si avvia a conclusione. Questo è vero per le imprese, per la società civile, per lo Stato e anche per le famiglie.
In particolare quest’anno, a poco meno di dodici mesi dall’esplosione della crisi mondiale, tutti si interrogano sulla portata della recessione e sugli impatti che ha prodotto e potrà produrre sulla quotidianità di ciascuno di noi.
Anche il Rapporto Coop 2009 non si sottrae a questo esercizio e anzi tenta, in particolare, di fare il punto sugli effetti che la crisi produce sulla spesa degli italiani, sui modelli di consumo e sui comportamenti di acquisto. Anche quest’anno il Rapporto si avvale della collaborazione scientifica di Ref e accoglie per la prima volta contributi originali di Nielsen, Iri-Infoscan e Demos.
Il Rapporto prende le mosse dallo scenario internazionale e tenta di ricostruire gli eventi più importanti dell’ultimo anno. Sul finire della scorsa estate, la crisi, già iniziata con lo scoppio della bolla subprime, con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, si è trasformata in maniera repentina nella peggiore recessione del dopoguerra. Ne sono seguiti mesi difficili in cui i Governi e le Banche centrali sono stati impegnati ad arginare le conseguenza della crisi di fiducia e a impedire il collasso dell’intero sistema finanziario. Sono state dispiegate nel mondo manovre fiscali e monetarie di inusitata dimensione e intensità che hanno permesso di scongiurare il peggio ma che lasciano agli anni a venire una difficile eredità per i bilanci pubblici di larga parte delle economie avanzate.
Una recessione che ha evidenziato tutti i limiti dell’eccesso di liberismo finanziario e di una politica economica internazionale che ha a lungo affidato alla finanza creativa e ai bassi tassi d’interesse il compito di mascherare gli squilibri insiti nelle economie mondiali. Crescenti diseguaglianze sociali, cronico indebitamento delle famiglie – soprattutto di quelle più povere – bulimia dei consumi di alcuni paesi, stili di vita non sostenibili, sia sul piano economico che ambientale.
La recessione ha colpito l’economia italiana con particolare violenza. Anzi, il nostro paese ha subito una riduzione del Pil particolarmente acuta e superiore ad esempio a quella degli Stati Uniti. Fortunatamente, però, almeno per il momento, tale riduzione ha interessato in misura meno marcata i redditi delle famiglie e in misura maggiore i bilanci delle imprese e dello Stato. L’erosione dei margini delle imprese e il crescente ricorso agli ammortizzatori sociali ha permesso di attenuare, infatti, gli effetti della crisi sull’occupazione.
Ciononostante, i consumi delle famiglie hanno messo a segno un deciso arretramento. Nel pieno della crisi le famiglie, dimostrando tutta la loro lungimiranza, hanno iniziato ad incorporare nei loro comportamenti di spesa il futuro aumento della disoccupazione mettendo in discussione abitudini e stili di vita consolidati, che divengono, ora, più sobri e frugali. Si consuma di meno, tentando di non rinunciare alla soddisfazione dei propri bisogni, tagliando soprattutto il superfluo e ricercando, con razionalità e perseveranza, l’efficienza nella spesa. Si rimanda l’acquisto dell’auto, si fanno vacanze più spartane, si ricorre maggiormente alle vendite promozionali, si riducono gli sprechi in tutti gli ambiti della vita quotidiana. A dispetto di questi tentativi, comunque, una parte crescente di italiani fa fatica ad arrivare alla fine del mese. Quasi un quinto degli italiani ha difficoltà a fare la spesa alimentare e a pagare le spese mediche.
Negli ultimi mesi, un sostegno al reddito delle famiglie è venuto dalla discesa dell’inflazione e dal parziale recupero del potere d’acquisto decurtato nel precedente biennio. L’inflazione è scesa sino ad azzerarsi, come non accadeva dal lontano 1959. E i prezzi alimentari hanno messo a segno variazioni congiunturali negative.
Il processo di disinflazione che stiamo vivendo non sembra presagire, almeno finora, a prospettive deflazionistiche. Resta questo comunque lo scenario peggiore da evitare: attese di prezzi più bassi in futuro spingono infatti a dilazionare gli acquisti e sono il primo anello di un avvitamento tra minori prezzi e minori consumi. Per scongiurare questa eventualità le Banche centrali di tutto il mondo hanno messo in campo misure straordinarie di aumento della base monetaria e della liquidità a disposizione del sistema finanziario.
Proprio la dimensione di tali interventi, però, lascia presagire paradossalmente un possibile ritorno di alti tassi di inflazione non appena la morsa della recessione dovesse allentarsi. Con effetti pesanti, ancora una volta, sul potere d’acquisto delle famiglie.
L’andamento dei prezzi rimane, quindi, in ogni caso una delle principali variabili incognite al centro delle prospettive per i consumi dei prossimi anni.
Invece, la distanza che tuttora separa il calo della produzione da quello dell’occupazione è l’eredità più scomoda che la crisi lascia per l’agenda economica dell’autunno italiano: l’intensità con cui si verificherà l’inevitabile aumento della disoccupazione è la maggiore incognita. Tra i lavoratori i maggiori costi sono sinora ricaduti sulle fasce meno tutelate della forza lavoro, i giovani, i precari, i lavoratori a tempo determinato e quelli del Mezzogiorno.
In questo contesto, le opzioni di politica economica disponibili per un paese che ha uno dei maggiori debiti pubblici al mondo sono indubbiamente molto limitate. Certo, mutuare l’esempio dei comportamenti delle famiglie sarebbe utile: eliminare il superfluo, mettere in discussione le posizioni di rendita e ridurre le inefficienze. Inoltre, una pubblica amministrazione più efficiente e, soprattutto, una ripresa del percorso delle liberalizzazioni sono possibili leve di intervento compatibili con il bilancio pubblico e di sicuro impatto positivo sull’economia e la vita quotidiana dei cittadini.
Nel medio termine, un’altra priorità è comunque il rilancio del potere d’acquisto dei salari, troppo a lungo compressi in nome della competitività di un paese che ha rinunciato a dotarsi di una politica industriale e dove la moderazione salariale e il lavoro flessibile hanno preso il posto della svalutazione competitiva. Peraltro, questa recessione, come ogni crisi accresce ancora una volta le disuguaglianze: crescono i divari tra nord e sud, quelli tra il lavoro pubblico e quello privato e nel privato tra lavoratori provvisti di tutele e non, in un paese che negli ultimi anni non ha saputo chiudere la distanza che separa il numero sempre maggiore di famiglie che versano in condizioni di povertà da quel 10% di italiani che detiene poco meno della metà della ricchezza finanziaria. Secondo l’Istat sono 8 milioni in Italia le persone che convivono con la povertà; quasi 3 milioni quelli che non possono permettersi di accedere a quel minimo di beni e servizi che qualifica uno standard di vita come accettabile.
Proprio a partire dalla consapevolezza che nelle società moderne le medie statistiche riferite all’intero corpo sociale hanno valore esplicativo sempre minore, il Rapporto propone quest’anno una analisi disaggregata delle abitudini di consumo dei tanti modelli familiari che compongono l’Italia. è così possibile cogliere le differenze tra i giovani e gli anziani, i single e le famiglie con figli, gli uomini e le donne: l’intento è quello di riportare la famiglia e le persone, come individui prima ancora che come consumatori, al centro del dibattito, anche di quello economico.
E così si scopre, ad esempio, che le donne hanno redditi più bassi, ma una propensione al consumo più elevata degli uomini: uno stile di consumo più sobrio dove le spese per la mobilità e la convivialità lasciano lo spazio a quelle per la salute e la cultura, e una dimensione dello svago orientata verso contenuti più edonistici e di auto-gratificazione. Aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro vuole dire, quindi, offrire un sostegno ai consumi e promuovere stili di vita orientati a comportamenti più sostenibili.
Il Rapporto illustra, infine, come il calo dei consumi abbia avuto effetti pesanti anche sulla distribuzione commerciale e sul commercio in generale. Nel primo semestre del 2009 le vendite al dettaglio hanno fatto segnare una variazione negativa pari al -2% mentre, già alla fine dello scorso anno, il numero dei punti vendita attivi metteva a segno la prima riduzione assoluta degli ultimi dieci anni.
La recessione ha colpito più duramente i negozi indipendenti di piccola superficie ma ha impattato in maniera significativa anche sulle vendite della grande distribuzione. Per la prima volta hanno subito una battuta d’arresto anche le grandi superfici specializzate non alimentari che avevano vissuto negli ultimi anni una crescita senza apparente soluzione di continuità.
A dispetto di tali difficoltà, la Gdo ha mantenuto comunque buoni tassi di crescita dei fatturati che rimangono positivi, però, solo grazie alle nuove aperture mentre l’andamento delle vendite a parità di rete è oramai strutturalmente negativo.
L’inevitabile prossima saturazione del mercato e la debolezza endemica dei consumi fanno con ogni probabilità della Gdo italiana il mercato più competitivo d’Europa e certamente quello con le redditività più basse. Peraltro, le recenti tensioni sui prezzi e la stessa recessione hanno acuito drammaticamente anche la dimensione “verticale” della competizione: distributori e produttori competono con sempre maggiore intensità per guadagnare fette maggiori della capacità di spesa del consumatore finale che si va facendo, viceversa, sempre più esigua.
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