Protagonisti del cambiamento all'estero, i giovani nati tra gli anni ‘80 e metà anni ‘90 non sembrano trovare spazi sociali ed economici nel nostro Paese. Eppure sono la generazione che sta interpretando meglio il cambiamento, inventando un nuovo concetto di professione, una nuova idea di famiglia, in sostanza un nuovo stile di vita

Sono nati negli anni della rivoluzione digitale, uno dei periodi più cool della storia recente, ma hanno dovuto fare i conti con la più profonda crisi economica dalla Grande Depressione degli anni Trenta: per gli analisti di marketing sono semplicemente i millennials, la generazione che più di altre incarna lo sconvolgimento radicale che nel corso dell’ultimo decennio ha travolto la società e le strutture sociali ed economiche che la regolano.

 

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Su di loro si è detto tutto ed il contrario di tutto: sono stati definiti choosy e bamboccioni, accusati di una incapacità cronica di staccarsi dal nido familiare e di approdare all’indipendenza, economica e di vita (l’età media di uscita dalla famiglia di origine avviene nel nostro Paese attorno ai 30 anni, mentre è inferiore ai 25 nei Paesi scandinavi, in Francia, in Germania e nel Regno Unito). Proprio loro, i giovani, che in ogni altra epoca hanno guidato le rivoluzioni e rappresentato il simbolo del futuro e del progresso, hanno finito per passare di moda, diventando una generazione per certi versi invisibile (non esistono per il mercato del lavoro, dove hanno il tasso di occupazione più contenuto di tutte le fasce di popolazione, e non esistono per la demografia, con una propensione alla genitorialità che si attesta sui minimi storici). Nessuno si è invece soffermato ad ascoltare il grido d’allarme che si è levato dalle loro relazioni con il mondo esterno: il disimpegno politico, l’astensione elettorale, la scelta di emigrare all’estero per cercare fortuna e lavoro (o almeno la disponibilità ad abbandonare famiglia ed amici, non lontana dal 90% del totale).

Quattro giovani su cinque, secondo l’ultima rilevazione dell’Eurobarometro, dichiarano nel nostro Paese di sentirsi ai margini della società, il più alto livello in Europa, secondo solo alla Bulgaria

Per questa “generazione disagio” la ricerca di una via di fuga è stata letta come una forma di menefreghismo, la loro insicurezza confusa con egoismo. Si tratta di capitale umano non adeguatamente valorizzato: qualora avvertissero la possibilità di instaurare un dialogo, i millennials
sarebbero pronti ad offrire il loro impegno a servizio della società, con il loro bagaglio di “smartness”,
di competenze digitali e di capacità di adattamento.

Secondo l’indagine “Millennial Dialogue”, i giovani italiani sono i primi in Europa per interesse e partecipazione agli incontri politici (10%, davanti ai coetanei francesi, tedeschi e spagnoli)

Uno su cinque vede di buon occhio le iniziative popolari che partono dal basso: come a dire che ciò che manca è prima di tutto un interlocutore in grado di suscitare coinvolgimento, di toccare le corde giuste e che il problema di oggi è principalmente da ricercare nell’efficacia della rappresentanza.

Quali sono dunque i valori che li muovono? Nel complesso la generazione millennial ha ben chiara l’agenda delle priorità, distinguendosi sotto questo punto di vista dai babyboomers e dagli individui della generazione X. Una gerarchia dei bisogni più essenziale, scevra da condizionamenti, maggiormente votata al benessere individuale: la salute innanzitutto, quindi la felicità, il godimento del tempo libero, la libertà e solo in ultima posizione le possibilità di arricchimento mediante l’avanzamento di carriera. Centrale per gli under 35 è l’attenzione all’ambiente: un approccio più “green” che orienta i comportamenti e gli stili di vita, dall’abitudine consolidata a differenziare i rifiuti (63% dei giovani), alla riduzione del consumo di confezioni in plastica a maggiore impatto inquinante (47%) sino all’impegno ad evitare agli sprechi di acqua e di energia elettrica nelle attività domestiche (46%).

Una generazione mobile, abituata a viaggiare in aereo il fine settimana, che risente dell’effetto della globalizzazione e quindi aperta a contaminazioni e confronti con altre culture

I millennials sono certamente i più europeisti dell’intera popolazione, come ha recentemente confermato anche il voto sulla Brexit nel Regno Unito (nella fascia di età compresa tra i 18 ed i 24 anni hanno votato per il “remain” il 64% dei votanti, contro il 33% degli over 65). A ciò hanno contribuito le politiche giovanili di emanazione comunitaria che sono state adottate nel corso degli ultimi anni e che  hanno inteso costruire maggiori opportunità di scambio negli ambiti dell’istruzione, come i programmi Erasmus, e del mercato del lavoro.

Dall’inizio degli anni Duemila ad oggi il numero degli studenti in mobilità è più che raddoppiato, passando da 15 mila a quasi 35 mila unità

Uno degli aspetti più  interessanti della generazione millennial riguarda certamente l’approccio al lavoro: segnati dalle preoccupazioni per la precarietà della propria posizione, il passaggio dalla vita da studente a quella da lavoratore avviene all’insegna della flessibilità e della resilienza. Tanti e diversi sono quindi i compromessi: secondo l’indagine del Censis, 2,3 milioni di giovani svolgono un lavoro di livello più basso rispetto alla propria qualifica (sono il 46,7% della forza lavoro, rispetto al 21,3% dei babyboomers di 35-64 anni). Un milione di millennials ha cambiato almeno due occupazioni nel corso dell’ultimo anno e più di un milione sono coloro che hanno dichiarato di aver lavorato in nero, mentre ammonta a 4,4 milioni il numero di giovani che ha iniziato il proprio percorso lavorativo con uno stage non retribuito. La disponibilità di dispositivi connessi alla rete 24 ore su 24 ha inoltre contribuito ad abbattere le barriere fra orario lavorativo e tempo libero, rendendo i millennials i moderni stacanovisti.

Più di 3,8 milioni di individui che appartengono a questa generazione lavorano oltre l’orario formale (il 17% in più rispetto ai babyboomers) ed altrettanti svolgono la propria attività anche durante il weekend

Giovani e tecnologici, i millennials non potevano che essere, però, anche i più creativi: secondo l’aggiornamento 2016 del Ministero dello Sviluppo Economico, le startup fondate da  imprenditori under 35 sono circa 1.200 in tutto il Paese, quasi un quinto del totale ma il quadruplo
rispetto alla quota delle società di capitali con prevalenza giovanile (6,4%). Reazione comprensibile alle
difficoltà di trovare un lavoro “sicuro”, qualunque cosa voglia dire oggi il concetto di sicurezza: se il lavoro non c’è, i millennials provano ad inventarlo.

 

Testo tratto dal Rapporto Coop 2016