Siamo tra i più in salute al mondo eppure ci sentiamo sempre più malati. La Sanità pubblica non ci convince, tanto da ricorrere spesso a cure private o alle medicine alternative come l'omeopatia. E nonostante l'invecchiamento della popolazione continuiamo a migliorare e ogni giorno guadagniamo circa 6 ore di vita in più

Se l’importante è la salute, gli italiani possono dormire sonni tranquilli.  Nonostante tutto, i suoi decennali problemi economici, una crescita che (quando c’è) si ferma poco oltre l’uno per cento, quasi 4 milioni di “scoraggiati” che non cercano occupazione pur essendo in età da lavoro ed una instabilità politica cronica, il nostro Paese si conferma in testa alle classifiche mondiali per il benessere psicofisico degli individui, seppure la percezione di benessere risulta in calo negli ultimi anni (gli individui che dichiarano di stare bene o molto bene corrispondono al 65% della popolazione).

A ben vedere, infatti, l’analisi dello stato di salute degli italiani restituisce una storia fatta di luci ed ombre, con una situazione decisamente più articolata rispetto all’immagine che tratteggia gli italiani come il popolo più in salute del mondo. Partiamo dalle notizie positive: ogni giorno l’aspettativa di vita media cresce di sei ore. Nonostante un lieve calo nell’ultimo anno, la speranza di vita alla nascita ha toccato rispettivamente gli 80,1 anni e gli 84,6 anni di media per gli uomini e le donne. Molto marcate, tuttavia, appaiono le distanze territoriali, tali da qualificare ancora una volta una vera e propria “questione meridionale”: in Trentino-Alto Adige si vive circa 3 anni in più in confronto alla Campania, a suggerire una disparità di accesso alla prevenzione ed ai servizi di assistenza sanitaria. Del resto, la sanità migliore sembra sempre più riservata a pochi privilegiati. Una recente indagine Censis ha infatti documentato come sono 11 milioni gli italiani che non possono permettersi le principali cure mediche, concentrati prevalentemente nelle aree più disagiate del Paese.

Un fenomeno rilevante è quello della medicina non convenzionale: secondo l’ultimo rapporto Eurispes, circa 13 milioni di italiani si affiderebbero a cure alternative e di questi quasi 10 milioni (il 76,1%) sceglierebbe quelle omeopatiche. Secondo le informazioni disponibili, in Italia sono quattromila i medici che esercitano l’omeopatia con regolarità, con una concentrazione nelle Regioni del Nord (in Lombardia negli ultimi sette anni i medici iscritti nei registri delle “medicine non convenzionali” dell’Ordine sono sostanzialmente triplicati). Secondo un’indagine Emg-Acqua, oltre la metà di coloro che assumono prodotti omeopatici ha un livello di istruzione superiore e ha iniziato su consiglio del farmacista, di parenti e amici, del medico generico o dello specialista. Si rileva una significativa differenza di genere tra i consumatori: tra le donne il 9,6% ha utilizzato almeno un medicinale omeopatico in tre anni, mentre tra gli uomini la percentuale scende al 6,8% (dati Istat). L’omeopatia viene usata soprattutto per curare riniti, raffreddori, influenze (63,6%), dolori articolari o muscolari (30,4%), allergie e problemi all’apparato respiratorio (21,8%).

Sorprendente è la dinamica della mortalità delle persone più giovani, che denota purtroppo non solo una persistenza degli scostamenti territoriali, ma anche una loro progressiva divaricazione: nel corso degli ultimi venti anni la mortalità sotto i 70 anni è diminuita sensibilmente in tutte le Regioni settentrionali ed è risultata stazionaria in quelle del Centro. Al Sud, al contrario, il trend è in forte aumento, al punto da far perdere agli individui che risiedono in questa area del Paese ciò che era stato guadagnato negli anni successivi al secondo dopoguerra. Indicativo, in questo senso, appare il dato sulla prevenzione: con riferimento alle sole patologie oncologiche, in Lombardia la quasi totalità della popolazione si sottopone ad esami di screening, mentre in Calabria la quota di copertura dei soggetti a rischio si ferma ad appena il 30%.

 

A tal proposito, l’ultimo rapporto Osservasalute ha enfatizzato il tema della disparità di risorse: la spesa sanitaria pro capite, pari in media nazionale a poco meno di 1.850 euro, oscilla tra un massimo di 2.255 euro (Bolzano) e 1.725 euro (Calabria). Ma sono molti  i lati oscuri della sanità nel nostro Paese, a partire dai tempi di attesa nelle strutture pubbliche: per una risonanza magnetica occorrono in media 80 giorni, per una visita cardiologica quasi 70 e per un appuntamento con un ginecologo si arriva a circa 50 giorni. Numeri che spiegano e giustificano il crescente ricorso degli italiani all’alternativa della sanità privata: nel complesso, il giro d’affari delle prestazioni extra settore pubblico ha raggiunto nell’ultimo anno quota 35 miliardi di euro, una vera e propria “tassa” addizionale che vale circa 600 euro l’anno a persona. Si tratta di un fenomeno che naturalmente tende ad acuire le disuguaglianze, mettendo in discussione il modello di welfare tradizionale finanziato con la fiscalità generale: tra i cittadini che hanno dovuto affrontare spese sanitarie private, hanno incontrato difficoltà economiche il 74,5% delle persone a basso reddito (ma anche il 15,6% delle persone benestanti), il 22% di quelle residenti al Nord, il 35% al Centro, fino al 54% al Sud e delle isole.

D’altra parte, se è vero che il miglioramento delle condizioni di base tende a portare sempre più in avanti l’età del decesso, è altrettanto emblematico che le principali cause di morte sono associate a malattie diverse rispetto al passato. Secondo una recente indagine Istat, nell’ultimo decennio si è assistito ad un calo delle malattie infettive e ad una diffusione di tumori e patologie cardiovascolari, che rappresentano oggi i due principali “big killer”. Più nello specifico, al primo posto nella graduatoria figurano i tumori, soprattutto quelli della trachea, dei bronchi e dei polmoni (tra gli uomini il cancro alla prostata è la decima causa di morte, tra le donne quello al seno è invece la sesta). Tra le prime cause di morte in Italia anche le malattie ischemiche, quelle cerebrovascolari e le altre patologie del cuore, anche se i tassi di mortalità si sono ridotti in dieci anni di oltre il 35%. In forte crescita alcune delle patologie cerebrali degenerative, quali demenza e morbo di Alzheimer, arrivate a provocare oltre 26 mila decessi negli ultimi dodici mesi. Quanto alla variabile geografica, si osserva un ridimensionamento dei differenziali territoriali della mortalità per malattie cerebrovascolari e dei tumori maligni, mentre permangono gli scarti nei livelli di mortalità tra Nord e Sud per cardiopatie ischemiche, malattie ipertensive e diabete.

Complice l’invecchiamento della popolazione, gli italiani si possono considerare un popolo di malati cronici: ne sono affetti 4 italiani su 10 (23,6 milioni di persone), mentre uno su quattro tra i pazienti adulti in carico alla medicina generale presenta contemporaneamente almeno due condizioni croniche (era il 21% nel 2011). Insieme all’ulteriore incremento degli antidepressivi (siamo arrivati a circa 40 dosi ogni mille abitanti), il tema più spinoso del dibattito recente è quello delle vaccinazioni, dal momento che dal 2010 ad oggi si è registrato un calo dei vaccini contro le malattie trasmissibili, soprattutto in età infantile. Secondo il Censis, la quota di bambini vaccinati è scesa al 95%: l’immagine più preoccupante della medicina “fai da te” e della disinformazione che viaggia sulla rete e sui social network (nel nostro Paese, più del 40% delle persone predilige l’autodiagnosi: una percentuale ragguardevole ma comunque più contenuta rispetto alle altre grandi economie europee).

 

Brano estratto dal Rapporto Coop 2017