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Negli anni Novanta chi nasceva da un operaio sarebbe potuto divenire medico, ingegnere o magari astronauta, con più probabilità di oggi. Uno studio di Confindustria del 2015 dimostra che il figlio di un operaio di età compresa tra i 30 e i 50 anni, oggi ha il 62% di probabilità di essere anche lui un operaio mentre, 15 anni fa, le possibilità erano soltanto una su due. Con la crisi si è quindi inceppato l’ascensore sociale che permetteva un affrancamento rispetto alla classe di provenienza e la migrazione a una classe più ricca.
Allo stesso modo si è interrotto il processo di “cetomedizzazione” per cui le persone tendevano ad immaginare di appartenere a gruppi sociali economicamente più agiati rispetto a quelli di nascita. Oggi, secondo l’Osservatorio sul capitale sociale di Demos e Coop, oltre la metà degli italiani (52%) si colloca nei “ceti popolari” o nella “classe operaia”, ma otto anni fa, soltanto il 40% riteneva di appartenere al popolo delle fabbriche, mentre il 53% si definiva ceto medio. Nel 2008, meno di un dirigente o un impiegato su quattro pensava a se stesso come un protagonista delle classe popolare, mentre oggi lo fa più di uno su tre. Lo stesso cambiamento si registra anche tra i liberi professionisti, 16%-19% tra il 2008 e il 2015, e tra gli imprenditori o i lavoratori autonomi 34%-40% nello stesso periodo. A pagare il conto più salato sono le donne la cui percezione di appartenere al ceto medio crolla in tutti i settori: dalla classe operaia a quella dirigente.
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