L’abbiamo sentito dire decine di volte. “Se gli immigrati continuano ad arrivare, va a finire che saranno più loro che noi”. E il prosieguo sembra scontato “Addio italianità”. Ma cosa significa davvero per noi essere italiani? Per rispondere a questa domanda, vi proponiamo uno studio fatto dal centro di ricerche statunitense Pew Research. L’istituto nordamericano, durante la primavera dell’anno scorso (4 aprile – 29 maggio 2016), ha intervistato 14514 residenti di 14 nazioni, tra cui anche l’Italia. Lo scopo era appunto aiutarci a capire cosa definisce la nazionalità nelle sue diverse declinazioni da paese a paese. Per quanto riguarda l’Italia, la classifica delle priorità sembra abbastanza chiara. Riteniamo fondamentale parlare l’italiano, poi la condivisione della cultura nazionale e di costumi e tradizioni, solo in terza posizione c’è il luogo di nascita e per ultima, strano a dirsi rispetto alla nostra tradizione, la religione.
Partiamo dal primo punto. Il 59% degli italiani credono che per definirsi “uno di noi” sia fondamentale parlare la lingua nazionale. Il 35% lo ritiene abbastanza importante mentre il restante 5% non se ne cura. Sembrano percentuali alte, ma se guardiamo il contesto internazionale, scopriamo che siamo in fondo alla classifica. Gli olandesi e gli ungheresi ci surclassano con un 84% e 81% di “very important”; inglesi, tedeschi e francesi seguono a ruota (81%, 79%, 77% rispettivamente); in fondo al ranking delle 14 nazioni intervistate, ci fanno compagnia solo spagnoli (62%) e canadesi (59%).
Se la lingua di Dante non ci coinvolge, anche la cultura non è un necessario spartiacque della nazionalità. Solo un italiano su due la ritiene fondamentale per la definizione della nazionalità. Certo qui siamo un po’ più in alto nella classifica, circa a metà. Ci fa compagnia l’Austria (50%), ma siamo distaccati di nuovo dall’Ungehria (68%), dalla Grecia (66%) e dalla Polonia (56%). Certo difendiamo molto la cultura italiana se il nostro dato viene paragonato a quello delle nazioni in fondo al ranking, come la Svezia (26%) o la Germania (29%). Costumi e tradizioni occupano lo stesso posto della cultura nella definizione dell’identità nazionale: un italiano su due ne ritiene necessaria la condivisione. Anche questa volta ci troviamo a metà classifica, distaccati dall’Ungheria e molto a distanza dalla Svezia, nuovamente in fondo alla classifica.
Riassumendo: italianità non è solo parlare l’italiano, non è conoscere i romani di Cesare e non è mangiare la pasta a casa della nonna la domenica. Dipende tutto dal luogo di nascita allora? Dalle statistiche non sembra, con buona pace del lungo dibattito che c’è stato in Italia su “ius soli” e “ius sanguiis” (conta dove nasci o conta da chi nasci). Solo il 42% degli intervistati italiani accordano importanza alla città natale. Una percentuale che ci tiene comunque nelle prime tre posizioni del ranking internazionale, ma che di certo è molto lontana da un plebiscito di consensi. Ci tengono molto più di noi gli ungheresi e i greci, poi Polonia, Spagna, Inghilterra e Usa. Ultimi di nuovo gli Svedesi per i quali a questo punto si può davvero parlare di predominanza della lingua parlata per definire uno straniero “uno di noi”.
E anche la religione non assolve al ruolo di spartiacque che ci aspetteremmo se non altro per le cronache internazionali e per la storia nazionale. Meno di un italiano su tre userebbe infatti il cattolicesimo come categoria per definire l’italianità (va detto che il Pew in questa domanda ha modificato l’aggettivo “cristiano” in “cattolico” nell’indagine italiana). Certo siamo terzi nel ranking dei 14 paesi intervistati e battiamo l’Ungheria in questo, ma anche qui i numeri assoluti non ci restituiscono percentuali molto condivise. A questo punto l’unica conclusione possibile è che definire cosa significhi essere italiano è così complesso, che nessuno di questi elementi ha convinto gli intervistati fino in fondo.
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