È oramai chiaro come quella causata dal Covid è stata non solo la peggiore pandemia da un secolo a questa parte ma anche la più ampia recessione dal secondo dopoguerra ad oggi. Una emergenza sanitaria che per essere gestita ha richiesto l’improvvisa cristallizzazione di tutte le attività sociali, provocando il contemporaneo verificarsi di uno shock di offerta (la grande maggioranza dei settori produttivi ha fatto segnare una riduzione dei livelli di attività mai registrati dalle statistiche) e un contemporaneo shock di domanda (i consumi si sono ridotti non solo perché sono peggiorati redditi e le aspettative delle famiglie, ma anche perché l’accesso a molti prodotti è stato completamente interdetto).

Anche a distanza di mesi dalla rimozione dei vincoli per cittadini e imprese siamo ancora lontani dal pieno ripristino dei livelli produttivi e vi è la comune consapevolezza che anche l’auspicata prossima ripresa non potrà riportarci prima di alcuni anni ai livelli economici precedenti.
In questo contesto, come per ogni fase economica, è il lavoro a mettere in connessione le astratte dinamiche macroeconomiche e il concreto orizzonte microeconomico del benessere degli individui. In un contesto nel quale già nel 2019, il mercato del lavoro italiano evidenziava una endemica debolezza e dinamiche strutturali particolarmente difficili.
Anche per questa consapevolezza, gli italiani, eguagliati solo dagli spagnoli, sono in larga maggioranza convinti del peggioramento delle prospettive di lavoro che attendono il paese nei prossimi mesi, soprattutto quando la moratoria dei licenziamenti dovrà terminare e le dinamiche del mercato faranno il loro corso. Infatti, anche le previsioni di ripresa dell’occupazione nel 2021 per l’Italia rendono chiaro sin d’ora che il recupero non permetterà di riconquistare tutto il terreno perso quest’anno. Secondo Svimez mancheranno, infatti, all’appello quasi 500 mila posti di lavoro, con una perdita quasi doppia del fenomeno nel mezzogiorno rispetto al centro-nord.
È facile comprendere come raggiungere un (buon) lavoro è la vera chimera di un’ampia fascia sociale. Tanto da diventare un ingrediente fondamentale per la costruzione di una esistenza felice. Sono 7 milioni i cittadini che sperano in un lavoro appagante, 6 e mezzo quelli che sognano un contratto di lavoro stabile e 5 i milioni di italiani che auspicano uno stipendio commisurato alle loro capacità professionali.
Anche per questa ragione, gli stessi manager italiani (uno su tre) sono convinti che il lavoro (e a poca distanza l’istruzione) debba essere la priorità assoluta delle politiche pubbliche. La maggioranza dei manager è convinta che si possa incentivare la ripresa mettendo innanzitutto mano al taglio del cuneo fiscale; favorire l’accesso al mondo del lavoro di giovani, donne e categorie in difficoltà e promuovere infine misure per aumentare la produttività sono le altre direttrici su cui lavorare.

L’altra faccia del mercato del lavoro riguarderà l’esplosione dei nuovi modelli organizzativi, favoriti dal lockdown a partire proprio dal lavoro agile e dal lavoro a distanza. Durante la quarantena – nel momento di massima estensione – il lavoro da remoto ha riguardato quasi 7 milioni di italiani, tramutandosi in un vero e proprio esperimento sociale che ha raccolto l’entusiasmo dei diretti fruitori e di una larga parte degli esperti e dei commentatori pubblici.
Ad una analisi più approfondita però, oltre agli indubbi vantaggi, la nuova organizzazione del lavoro ha mostrato anche aspetti controversi di cui tenere conto per un con- sapevole utilizzo a regime, dopo l’esperienza improvvisa (e per alcuni versi improvvisata) durante la quarantena. Da un lato, infatti, lo smartworking ha permesso, in una condizione senza precedenti, di assicurare continuità alla prestazione lavorativa e di non pregiudicare il mantenimento del posto di lavoro e – anche in condizioni ordinarie – permette di conciliare meglio i tempi di vita, con più tempo libero da impegnare nelle attività domestiche, nella tutela del benessere personale e familiare e, in qualche caso, anche di aumentare le stesse performance lavorative.
Contemporaneamente il lavoro a distanza sembra poter generare anche nuovi problemi e riproporre vecchie disparità. Per alcuni ha significato infatti un incremento delle ore lavorate, una difficoltà nel dividere il tempo del lavoro da quello della vita personale, portando per alcuni anche un senso di solitudine e di isolamento. Allo stesso modo, in lavoro da remoto sembra favorire maggiormente gli uomini, scaricando sulle donne maggiori incombenze della gestione domestica e, forse, nel lungo termine, enfatizzare ulteriormente la proiezione di percorsi di carriera ancora più difficoltosi.
Articolo tratto dall’Anteprima digitale del Rapporto Coop 2020
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